I risultati li vedremo solo tra mesi, o anche anni. Ma quello che è certo è che qualcosa nelle istituzioni si sta muovendo per risolvere il problema che unisce la filiera della moda e la sostenibilità. A New York è stato presentato il “Fashion sustainability and social accountability act” : un disegno di legge che, se approvato, porterebbe una piccola rivoluzione in materia di trasparenza. In particolare, nel modo in cui le aziende si interfacciano con il cliente. In Italia ci si sta attrezzando per i cambiamenti che si prefigurano in Europa: entro il primo trimestre del 2022 dovrebbe essere approvata la Sustainable products initiative , la nuova strategia per il tessile sostenibile che riguarderà temi quali: la durabilità dei capi, il riuso e il fine vita. È anche per andare in questa direzione che dal 1 gennaio 2022 la raccolta differenziata degli abiti e dei tessuti è stata resa obbligatoria in tutta Italia.
Nella grande mela è stata presentata una proposta di legge che, se approvata, costituirebbe un fondamentale passo per la trasparenza nel settore. In Italia dal 1 gennaio è obbligatoria la raccolta differenziata dei tessuti e l’UE a breve pubblicherà un regolamento per la gestione della filiera
La proposta di legge è stata sponsorizzata dalla senatrice Alessandra Biaggi e dalla deputata Anna R. Kelles, con il sostegno di una serie di organizzazioni non profit che operano nell’ambito della moda e sostenibilità, come il New Standard Institute, il Natural Resources Defense Council e la New York City Environmental Justice Alliance, così come la stilista Stella McCartney, da sempre paladina della moda green. Il 7 gennaio Biaggi e Kelles hanno presentato il disegno di legge “Fashion sustainability and social accountability act” che, come si legge su New York Times richiederebbe alle aziende di mappare almeno il 50 per cento della loro catena di approvvigionamento : fabbriche, allevamenti, artigiani, spedizioni. Inoltre dovrebbero rivelare gli anelli della catena “più deboli” in fatto di emissioni, di impatto ambientale e sociale e studiare un piano concreto per risolvere i problemi emersi che vanno dai salari più equi al taglio della CO2, in conformità con gli obiettivi fissati dagli accordi sul clima di Parigi. Le aziende dovrebbero poi rivelare i loro volumi di produzione specificando il quantitativo di materiale immesso sul mercato. Tutte le informazioni dovranno essere rese disponibili online.
Al momento si tratta solo di una proposta di legge che deve essere approvata. Se dovesse entrare in vigore, non si applicherebbe comunque a tutte le aziende che operano nel mondo della moda, ma solo alle grandi imprese multinazionali di abbigliamento e calzature con più di 100 milioni di dollari di fatturato e che fanno affari a New York . Si parla quindi di colossi come LVMH, Prada e Gucci ma anche dei giganti del fast fashion come Shein e Boohoo. L’idea è quella di aprire la strada al concetto che anche la moda debba essere regolata e che la trasparenza non vada considerata una punizione. Al contrario, servirebbe anche a chi sta già facendo sforzi in direzione della sostenibilità per renderli più visibili e riconosciuti . Come spiega Vanessa Friedman sul NYT, ci sono già Stati o Paesi che si stanno attrezzando, così come ci sono aziende che si sono impegnate: ad esempio, Ralph Lauren, Kering e LVMH hanno aderito alla Science-Based Targets Initiative , uno strumento per ridurre le emissioni di carbonio creato dal Global Compact delle Nazioni Unite, dal World Resources Institute e dal World Wide Fund for Nature.
In Italia Dal 1 gennaio 2022 è diventata obbligatoria in tutta Italia la raccolta differenziata dei tessuti su tutto il territorio , con l’obiettivo di recuperarne il 100 per cento. Con il decreto legislativo 116/2020, il Paese ha attuato con un anticipo di tre anni il “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” che l’UE ha adottato nel 2018. Direttive che incentivano la selezione, il riutilizzo e il riciclaggio dei tessili, anche attraverso l’innovazione e che incoraggia le applicazioni industriali e le misure di regolamentazione come la responsabilità estesa del produttore.
Dal 1 gennaio 2022 è diventata obbligatoria in tutta Italia la raccolta differenziata dei tessuti su tutto il territorio
Secondo quanto riporta il report l’“Italia del riciclo”, della Fondazione sviluppo sostenibile e Unicircular, nel 2019 in Italia sono stati prodotte 480.000 tonnellate di rifiuti tessili . Di queste, circa la metà proviene dall’industria tessile mentre il 30 per cento deriva dalla raccolta urbana . Come si legge nel rapporto, nel 2019 il 46 per cento dei rifiuti del settore tessile è stato avviato a recupero di materia, mentre l’11 per cento è stato destinato a smaltimento. Una quota molto rilevante dei rifiuti, circa il 43 per cento è stata destinata ad attività di tipo intermedio, come pretrattamenti e stoccaggio. Secondo l’ultimo rapporto Ispra sui rifiuti urbani pubblicato a dicembre del 2021, nel 2020 sono state raccolte 143,3 tonnellate di tessuti. In alcuni comuni la raccolta differenziata del tessile avviene già, ma ci sono diversi punti da migliorare , come rendere più accessibili e aumentare il numero delle campane della raccolta, per aiutare i cittadini e per evitare che rifiuti che potrebbero essere recuperati finiscano nell’indifferenziato. Ma se qualcuno è già attrezzato per la raccolta differenziata, c’è chi ha chiesto una proroga in attesa che l’Europa rendesse note le misure contenute nella sua strategia sull’economia circolare nel tessile.
Entro il primo trimestre del 2022, la commissione europea pubblicherà la Sustainable products initiative . Attualmente non è ancora stata diffusa una bozza del contenuto, ma quello che è certo è che gli obiettivi andranno dal rendere la catena di approvvigionamento più trasparente, alla responsabilità del produttore, al rendere i prodotti più durevoli e riparabili. La Sustainable Products Initiative (SPI) è parte del Circular Economy Action Plan (CEAP), uno degli elementi principali del Green Deal euro peo . Uno degli obiettivi della Spi sarà anche quello di contrastare il greenwashing, ovvero quelle pratiche di pubblicità ingannevole che sfruttano la sostenibilità per sponsorizzare un prodotto senza un riscontro nella realtà.
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