Bioplastiche secondo uno studio CNR si degradano lentamente disperse nell’ambiente

2022-05-14 18:16:31 By : Ms. Ling Hong

Luca Foltran 13 Maggio 2022 Packaging Lascia un commento

Anche le bioplastiche, se disperse nell’ambiente anziché essere conferite nel compost, hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non biodegradabili. È’ questa la conclusione a cui è giunto lo studio, pubblicato su Polymers, condotto dal Consiglio nazionale delle ricerche e dal Centro nautico e sommozzatori La Spezia, che ha messo a confronto i due polimeri più impiegati negli oggetti di plastica, HDPE (polietilene ad alta densità) e PP (polipropilene), con due polimeri di plastica biodegradabile, PLA (acido polilattico)  e PBAT (polibutirrato-adipato-tereftalato), verificando il grado di degradazione in acqua di mare e sulla sabbia. Le sigle HPDE e PP indicano plastiche tradizionali non biodegradabili, principalmente a base di combustibili fossili mentre PLA e PBAT  identificano bioplastiche biodegradabili (a base biologica nel primo caso e a base di combustibili fossili nel caso del PBAT (anche le plastiche biodegradabili possono infatti derivare da combustibili fossili.).

Normalmente il PLA è ottenuto a partire dall’amido di mais o dalla canna da zucchero mediante sintesi chimica o fermentazione e i suoi utilizzi spaziano dal packaging alimentare, ai sacchetti biodegradabili, fino alle stoviglie monouso. Il PBAT invece è un polimero biodegradabile, con proprietà meccaniche simili a quelle di polietilene a bassa densità (LDPE), usato nel campo del imballaggio alimentare e per film agricoli. L’esperimento,  il primo di questo tipo, ha utilizzato la piattaforma di monitoraggio ambientale “Stazione Costiera del Lab Mare” posta a 10 metri di profondità nella Baia di Santa Teresa nel Golfo della Spezia, alla quale collaborano anche l’Istituto Idrografico della Marina e l’Enea. Qui sono state alloggiate particolari “gabbie” progettate per contenere i campioni di plastica. È stata inoltre predisposta sulla spiaggia una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici, per simulare la superficie terrestre.

Dopo sei mesi né i polimeri tradizionali né quelli a base bio hanno mostrato una degradazione “significativa” e, come si legge nel comunicato stampa rilasciato dal CNR, “nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale”. Secondo Marina Locritani, coordinatrice dell’indagine: “Lo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”. Come segnalato in un precedente articolo, l’Italia ha scelto di recepire la Direttiva Europea sulla plastica monouso “deviando” rispetto al testo originale e consentendo l’uso, ma solo in situazioni specifiche, di articoli in plastica compostabile realizzati con almeno il 40% di materia prima rinnovabile (60% dal primo gennaio 2024).

Questa comunicazione del CNR, non ha lasciato indifferente il settore Assobioplastiche (Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili) che ha immediatamente replicato  contestando non tanto i dati, ma il “significato strumentale dell’operazione” che “getta un’ombra sull’intero settore”. Secondo Assobioplastiche sarebbero tre gli aspetti da evidenziare.  Il primo riguarda i risultati dello studio “diffusi prematuramente […] , dopo soli sei mesi, in un esperimento che dura tre anni”.  Secondo l’associazione non sarebbe casuale la pubblicazione “proprio nelle ore in cui si sta discutendo di una possibile via italiana al recepimento della Direttiva europea sulle plastiche monouso.” “Come è noto”, continua il comunicato di Assobioplastiche “vi sono tesi diverse e schieramenti opposti. Da una parte c’è chi ritiene che le bioplastiche – fermo restando che la riutilizzabilità resta sempre l’opzione preferibile – possano costituire un possibile piano B considerate le specificità del nostro Paese. Dall’altra parte vi è, invece, chi le critica a prescindere”.

La seconda singolarità riguarderebbe i tempi di degradazione delle bioplastiche che non sono stati misurati, pur essendo questo lo scopo dello studio.  “L’articolo non risponde infatti alla domanda ‘Quali tempi di degradazione hanno le bioplastiche rispetto a quelle convenzionali?”. Secondo l’associazione “nella prova manca un elemento fondamentale per contestualizzare i risultati e dare un senso al termine ‘significativo’ riferito a degradazione, ‘lungo’ riferito a tempo e via dicendo.” Da ultimo il tema dei “rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento” citati nel comunicato stampa del CNR , ma che lo studio di partenza, pubblicato su Polymers, non affronta in nessun modo. Una battaglia a suon di comunicati stampa che non piace a nessuno, come sostiene la stessa associazione nella premessa: “Spiace dover dialogare a mezzo di comunicati stampa, laddove sarebbe preferibile rimanere nell’ambito della discussione scientifica, che Assobioplastiche ritiene vitale e stimolante e spera poter continuare nelle sedi opportune con i ricercatori interessati al tema della biodegradazione delle bioplastiche”.

Secondo il CNR, altri esperimenti, già programmati, monitoreranno i processi di degradazione in condizioni più estreme, grazie all’installazione di ulteriori gabbie contenenti plastiche e bioplastiche nella “Stazione profonda del Lab Mare” poste a circa 400 metri di profondità, sempre in acque liguri. Questi nuovi studi riusciranno a mettere d’accordo tutti? L’auspicio è che si riesca comunque a trovare una linea comune su cui dialogare, mettendo al centro gli interessi dei consumatori e dell’ambiente.

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